Era la sera del quattordicesimo giorno, almeno uno di ritardo rispetto al previsto.
Il viaggio era stato tutt’altro che piacevole,
abbiamo passato notti insonni tra bestemmie di credenti e preghiere di atei, urlate in cuccette puzzolenti di vomito e sudore, stesi o raggomitolati su piastre di ferro freddo che venivano chiamate letti.
Tutte le volte che mi è capitato di pensare all’inferno, non avevo mai considerato che potesse essere così penoso come la terza classe di quel transatlantico, stipata nella Giudecca di quello scafo, a tu per tu con Lucifero e Giuda: noi nel girone dei traditori, forse per la colpa di aver lasciato un’Italia in difficoltà, alla ricerca del “Paradiso Americano”, eravamo ad un passo dal baratro e dagli abissi dell’Oceano.
Stringevo lo stesso crocefisso che sempre ho stretto nei momenti bui e con le lacrime agli occhi, dopo aver scorto qualche barca a vela di piccole dimensioni, ho aspettato di vedere la luce: non quella religiosa né quella filosofica.
Ho aspettato cercando dentro quel golfo la luce di una torcia.
Non dimenticherò mai quel tramonto sul mare, non ne avevo mai visto uno prima di quelle due settimane di navigazione, non avevo mai visto il mare. Con il sole alle nostre spalle, rovente sull’orizzonte in mezzo ad una scia di schiuma bianca mossa dai motori della nave, ci sforzavamo di cercare e riconoscere all’orizzonte un profilo imparato a memoria dalle cartoline e dalle foto di chi ci attendeva a Nuova York.
Quando sparì il sole, al cospetto di un cielo dalle cento tonalità di rosso, vedemmo un piccolo lumicino sorretto dall’ombra di una regina col braccio alto: fu il benvenuto della nostra guida.
Ciao Miss Liberty!
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